Rispetto al futuro del web, attualmente, siamo in una fase di confusione nella quale emergono due filoni di pensiero distinti, che propongono visioni e soluzioni embrionali. Da un lato c’è chi parla di Web3 e dall’altro chi evoca il metaverso.
Col termine Web3 si intende una rete decentralizzata nella quale la struttura client/server (in cui i dati sono gestiti e conservati da enti centrali fidati) verrebbe sostituita dalla tecnologia blockchain (un registro aperto e distribuito su una rete di computer peer to peer) e da un insieme di nuovi protocolli. Mentre il web 2.0 ha innovato il front-end, il web3 punterebbe a cambiare il back-end delle nostre esperienze in rete.
Realisticamente le ipotesi sul metaverso sono tre: il metaverso come nuova internet, il metaverso come realtà aumentata, il metaverso come realtà virtuale.
Il metaverso come evoluzione di internet è l’idea più ambiziosa. Il suo primo e maggiore sostenitore è Matthew Ball, analista dei media e investitore, che ha definito il metaverso come l’evoluzione dell’attuale rete, vale a dire un insieme di protocolli, tecnologie, linguaggi, dispositivi di accesso, contenuti ed esperienze immersivi, con caratteristiche peculiari.
Questa rete dovrebbe essere persistente, interoperabile, permettere esperienze sincrone, non avere limite di partecipanti, avere un’economia propria. In questa accezione il metaverso non potrebbe essere l’opera di un’unica mente, ma richiederebbe il contributo di tantissime organizzazioni diverse, ognuna specializzata nella costruzione di un pezzo dell’infrastruttura.
Ma gli ostacoli tecnologici attuali sono enormi, riguardano l’hardware, la capacità di banda, la potenza computazionale, gli standard per garantire l’interoperabilità tra esperienze diverse. Di conseguenza, questa idea è la meno probabile o, quanto meno, non realizzabile prima di dieci anni.
Il metaverso inteso come miglioramento delle esperienze di realtà virtuale è l’idea che si può leggere tra le righe delle dichiarazioni di Mark Zuckerberg. Anche lui lo vede come la prossima tappa dello sviluppo di internet, ma poi dipinge un universo fatto a immagine e somiglianza dei suoi prodotti. Quindi un insieme di mondi nei quali immergersi principalmente, ma non esclusivamente, con l’utilizzo di dispositivi specifici (come i visori e i controller della sua azienda Oculus) per fare esperienze di lavoro (magari usando la sua applicazione Horizon Workrooms) e ludiche (con Horizon Venues).
Anche qui il lavoro è ancora all’inizio perché l’attuale realtà virtuale, seppur convincente nelle sue applicazioni di gioco, è lontana dall’essere un accogliente mondo alternativo per la socializzazione delle masse. L’hardware richiesto è troppo pesante e invasivo, le applicazioni non ludiche sono poche, le meccaniche della “socialità virtuale” sono tutte da esplorare.
Il metaverso come miglioramento delle esperienze di realtà aumentata è l’ipotesi portata avanti dalle aziende che hanno investito da anni su questo fronte tecnologico specifico, in particolare Niantic Labs e Snap.
Niantic Labs, nata come startup interna a Google nel 2010 e poi diventata indipendente cinque anni dopo, è conosciuta per il primo gioco AR, Ingress, e per il successo di Pokémon Go, che ha generato oltre 6 miliardi di ricavi. Il suo CEO, John Hanke, ha detto chiaramente che la versione di futuro di Zuckerberg è un incubo distopico e che lui vuole costruire una realtà migliore piuttosto che alternativa. Non un posto nel quale rifugiarsi per sfuggire alla vita reale:
“Crediamo di poter usare la tecnologia per aumentare questa realtà, incoraggiando le persone ad alzarsi, uscire e connettersi agli altri e al mondo circostante”.
Niantic sta lavorando ai suoi occhiali AR e ha presentato un kit di sviluppo per la sua piattaforma Lightship per permettere la creazione di esperienze simili a Pomémon Go.
Il passaggio che stiamo vivendo è il livello pro dello switch dall’era del possesso all’era dell’accesso. A cavallo degli anni 2000 i CD hanno vissuto il loro momento di massimo splendore. Era l’era del possesso, in cui le persone erano disposte a pagare un prezzo per avere pieno possesso di un bene. Aziende come Spotify -ma anche Netflix- hanno rivoluzionato questo sistema spostando l’attenzione sulla condivisione, intesa come la fruizione di un prodotto su una piattaforma che non implica l’effettivo possesso. Oggi, grazie alla blockchain e in particolare agli NFT, strizziamo di nuovo l’occhio all’era del possesso, con una piccola ma rilevante peculiarità: il possesso unico. Oggi possiamo scegliere di possedere un bene inequivocabilmente e unicamente nostro.
L’idea che navighiamo nel metaverso attraverso un avatar è un chiaro esempio di possesso unico. Le transazioni di beni digitali volti alla personalizzazione del proprio avatar sono in costante crescita. Gucci ha creato un paio di sneakers (le Virtual 25) che non esistono nella realtà: possono essere utilizzate solamente online, sui social o su piattaforme virtuali come VRChat e Roblox. Alla stregua di Gucci, anche altre case di moda (vedi Adidas, Balmain, Louis Vuitton, Givenchy…) stanno iniziando a presidiare il mercato digitale attraverso la vendita di abiti ed accessori digitali sotto forma di NFT, che garantisce autenticità ed esclusività.
Secondo Marty Resnick, vicepresidente di Gartner, entro il 2026 il 25% della popolazione mondiale avrà trascorso almeno un’ora al giorno nel metaverso per lavoro, shopping, istruzione, scopi sociali e di intrattenimento e il 30% delle organizzazioni nel mondo avrà prodotti e servizi nel metaverso.
E’ evidente che la strada che sta prendendo il metaverso non è quella di volersi affermare semplicemente come un nuovo canale di comunicazione, ma come un macro canale in grado di generare altri canali.
Questo contribuisce notevolmente allo sviluppo della nuova creator economy, offrendo nuovi strumenti interattivi per la creazione di contenuti e nuovi mezzi di coinvolgimento delle community.
Parlo delle opportunità che si stanno aprendo per brand e creator in questo post.