Al di là delle più evidenti e ahimè gravi conseguenze del Covid-19, in molti tra gli studiosi dei fenomeni socioeconomici ricorderanno questo periodo come la pandemia degli influencer.
Se i virologi sono stati i veri protagonisti, gli influencer, intesi come categoria, sono da annoverarsi tra i migliori interpreti del momento.
Il livello di coinvolgimento degli Influencer nelle organizzazioni e nei Paesi
Gli influencer sono stati tirati per la giacchetta da più parti e sono stati coinvolti da subito. Dall’OMS ai governi locali, diversi sono stati i player che hanno ingaggiato o coinvolto gli influencer per diffondere messaggi sulla distanza sociale o come leva per contrastare il fenomeno delle fake news e per garantire, tempestivamente, una portata capillare, door to door, al messaggio da far arrivare alla gente. Si pensi che in Finlandia accanto alle professioni ‘necessarie’ quali dottori, infermieri, produttori alimentari, trasportatori e commessi le autorità hanno inserito anche gli influencer a cui riconoscono un valore strategico, sono operatori cruciali nella gestione della crisi. Una mobilitazione degli influencer non improvvisata, ma frutto di un lavoro di ‘visione’ già iniziato da tempo: gli influencer facevano già parte dei piani di emergenza del governo da circa due anni.
In Bangladesh, dove il 54% della popolazione ha meno di 34 anni, il governo e la Banca Centrale Nazionale hanno creato e promosso un ‘social leaders council’ che conta centinaia di influencer, con lo scopo di veicolare informazioni ufficiali e confermate sul fenomeno COVID e per fungere da centro di intelligence sociale, raccogliendo sentiment e tenendo sotto osservazione le reazioni della popolazione.
Ma quali sono le conseguenze che ha generato questo fenomeno?
Penso che questa mobilitazione globale e l’intenso coinvolgimento degli influencer potrà aiutare a superare definitivamente i pregiudizi che hanno investito questa categoria alla quale non sempre si riconosce la sua dignità professionale. Si tratta di un mercato che conta migliaia di interpreti e centinaia di aziende specializzate che vale 8 miliardi a livello mondiale, solo in Italia il mercato ha un valore di 240 milioni di euro (fonte IAB, PUBLICIS).
C’è dell’altro; rispetto a quello che abbiamo potuto verificare sul mercato posso dire, senza ombra di dubbio, che gli influencer sono e sono stati gli audaci e grandi interpreti di questo momento.
Secondo una fresca analisi pubblicata da Nielsen, infatti, abbiamo visto, quanto sia cresciuta la fiducia da parte delle persone negli influencer, e questo grazie al ruolo spontaneo assunto nell’aver contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica preoccupandosi di intrattenere e di coccolare i propri follower costretti a rimanere in casa, facendo leva proprio sui talenti che i marketers gli riconoscono: l’aderenza e la conoscenza della propria audience attraverso l’interpretazione dei gusti, delle necessità e dei bisogni. Non da ultima la capacità di indagare la componente emotiva del momento con la quale hanno dato vita a grandi esempi di creatività, spesso adattando il proprio stile, il proprio storytelling, dimostrando doti creativi e capacità di interpretazione. Tutto ciò è avvenuto con estrema tempestività e prima ancora di altri operatori della comunicazione. Gli influencer, insomma, sono stati tra i primi ad adattarsi.
Li abbiamo visti letteralmente entrare nelle case degli italiani generando un dividendo fiduciario che potrà mutuare nella comunicazione di prodotto quando si troverà ad essere chiamato a costruire delle storie di marche o raccontare experience di prodotto che avranno come focus proprio la rassicurazione tra i primi obiettivi di comunicazione.
Secondo una recente rilevazione pubblicata dall’Osservatorio Internet Media del POLIMI, il 74% degli influencer ha modificato il proprio piano editoriale e i formati solitamente utilizzati, incrementando l’uso delle Instagram stories e dei contenuti live concentrandosi su messaggi emozionali (43%) legati a contenuti “iorestoacasa” (46%), di supporto a charity (48%) o di iniziative in cui coinvolgere la loro fanbase (35%).
Questo cambio di passo è stato immediatamente ripagato immediatamente da risultati alti e sorprendenti. È volato l’engagement e il numero delle visualizzazioni, tanto che il 71% degli influencer italiani ha ricevuto maggiori messaggi dai propri followers, nonché un incremento delle visualizzazioni (57%) e delle interazioni (53%). Certo non tutti gli esperimenti sono riusciti bene. Non tutte le professionalità si sono rivelate pronte a fare questo salto.
Perché alcuni influencer sono riusciti ad adattarsi e altri no?
Il motivo ha radici ben più profonde perché il panorama degli influencer è di fatto molto stratificato. Gli influencer hanno al loro interno una varietà molto ampia di fenomeni: c’è chi non ha ancora capito di avere un talento, chi sa bene come connettersi con la propria audience, chi ha fatto leva su una propria visibilità, magari ereditata grazie ad una sua presenza altrove (per esempio i talent televisivi..) e chi invece ha dimostrato di essere un vero e proprio creator.
Il Covid-19 ha di fatto accelerato un processo già in atto sul mercato, una vera e propria mutazione genetica che farà consolidare ed emergere definitivamente quella categoria di influencer che noi addetti del settore definiamo “content creators”, alla quale vengono riconosciute una grande conoscenza della propria audience e una competenza intorno a ciò di cui parlano, oltre ad una sensibilità nell’uso dei social network.
In molti sostengono che la nuova classe di influencer formata da queste “rising stars” potrebbe rafforzare la reputazione del settore che è spesso accusato di superficialità, di avvalersi di pratiche fraudolente e criticato sul comunicare ‘raccomandazioni’ basate su informazioni non sempre confermate.
“È proprio il creator più attento ai valori e quindi al trust verso il proprio pubblico che si sta dimostrando quello più adatto ad essere coinvolto dalle aziende. E qui per il nostro mercato c’è infatti una possibile nuova grande opportunità”.
Influencer al fianco delle aziende per combattere l’infodemia
La sfida che avranno di fronte le marche è parallela alla crisi sanitaria. Intorno al rischio sanitario, infatti, abbiamo sentito di tutto e il suo contrario: prima la mascherina non serve, poi è obbligatoria; dicono che il caldo uccida il virus, anzi no; si contrae solo per vie aeree, salvo poi scoprire che in alcuni casi il contagio avviene anche attraverso il contatto con alcune superfici. Tutto ciò ha reso la vita durante il lockdown estremamente angosciante e ha creato un contesto altamente instabile, portando ad una conseguente radicale ridefinizione del bisogno di “sicurezza” da parte delle persone. Bisogno di sicurezza come vincolo talmente fondante da essere bloccante nel processo di acquisto del consumatore nella fase 3.
Le aziende si dovranno confrontare con un mix esplosivo: il combinato disposto tra la probabile riduzione del potere economico di acquisto di larghe fasce di consumatori e la ridefinizione dello standard di sicurezza che il “consumatore post-COVID” reputerà accettabile per poter affrontare il discomfort con cui si confronterà quando potrà finalmente uscire e comprare.
Pensate solamente alle nostre abitudini quotidiane più automatiche e ricorrenti, come provarsi un abito in camerino di un negozio o prendere un car sharing: entrare in auto appena usata da qualcun altro è oggi quasi una insormontabile barriera alla fruizione.
E’ inevitabile pensare quindi che le aziende saranno costrette a fare dei pesanti interventi di ridefinizione del proprio sistema di offerta e dei processi di customer experience che dovranno necessariamente insistere proprio sui nuovi paradigmi della sicurezza. Tornare ad una vita normale implicherà per le aziende fare degli interventi sostanziali, concreti, per rassicurare un consumatore ormai spaventato, e una volta risolti bisognerà raccontarli in maniera efficace. E questa sfida non risparmierà nessuno, né il leader di settore, né i prodotti affermati.
Dunque sarà proprio l’influencer che esce da questa prima fase pandemica rafforzato nel suo rapporto fiduciario con la propria audience a poter rivestire un ruolo centrale nei processi di comunicazione delle aziende.
Secondo una recente analisi pubblicata sul suo blog, Vincenzo Cosenza fa una lucida osservazione sul marketing delle marche durante la pandemia, facendone emergere i diversi atteggiamenti. Accanto ad alcune fasce di aziende che, a causa del momentum, hanno preferito tirare i remi in barca adottando politiche attendiste, ci sono aziende che hanno modificato i propri piani di comunicazione spostando il focus dal prodotto ai valori e destinando importanti budget alle politiche di brand purposing. Proprio in questi casi coinvolgere degli influencer è una delle opzioni più efficaci per connettersi in maniera empatica alla propria community, a patto di farlo senza una spinta troppo commerciale o eccessivamente legata al prodotto.
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