I metaversi già esistenti e quelli che nasceranno potrebbero diventare dei servizi che utilizzeremo più dei social media. Le loro caratteristiche di immersività dovrebbero proprio puntare ad un maggior coinvolgimento degli utenti, anche in termini di tempo speso. Questo vuol dire che gli abitanti dei metaversi, che socializzano attraverso un avatar, staranno molto attenti a come personalizzarlo per renderlo unico e atto a rappresentare la propria personalità.
Già oggi accade soprattutto tra i ragazzi della Gen Z che non fanno differenze tra esperienze reali e digitali e che considerano gli avatar una vera e propria estensione di se stessi. Di conseguenza, hanno bisogno di personalizzarli affinché riflettano la giusta immagine da proiettare, non necessariamente quella reale.
Nella maggior parte dei casi questa personalizzazione passa per l’acquisto di capi d’abbigliamento e accessori digitali, messi a disposizione dal marketplace interno al mondo virtuale.
Si tratta di una grande opportunità per i brand, battezzata D2A ossia Direct to Avatar, in contrapposizione al concetto di Direct to Consumer.
Non a caso, secondo Wunderman Thompson Data, l’81% dei consumatori globali pensa che la presenza virtuale di un marchio sia importante quanto la sua presenza in negozio.
I vantaggi di questa economia nascente, che potremmo definire “Avatar Economy”, possono essere riassunti in tre punti fondamentali:
- andare incontro ad una nuova domanda di beni digitali e quindi a aprire nuove linee di ricavi;
- eliminare la gestione logistica;
- ingaggiare i consumatori più sfuggenti, senza passare per la pubblicità considerata invasiva, ma anche i più piccoli (quelli della generazione Alpha che già usano i mondi digitali per sperimentare la propria self expression).
Già oggi i brand più innovativi hanno sperimentato forme di Direct to Avatar in diversi metaversi:
- Ralph Lauren ha messo a disposizione 50 capi d’abbigliamento nell’app Zepeto;
- American Eagle ha realizzato una collezione per gli avatar di Bitmoji;
- Gucci e The North Face hanno creato una collezione speciale per vestire gli avatar di Pokémon Go;
- Balenciaga, Monclair, Nike hanno creato “skin” per gli utenti di Fortnite. Ferrari ha messo in vendita una Ferrari da usare nel gioco;
- Gucci ha venduto la sua iconica borsa Dionysus in Roblox per 6 dollari, ma poi è stata rivenduta dall’acquirente a oltre 4.000 dollari, un valore superiore alla sua versione reale;
- Maserati, Aston Martin e Tesla hanno lanciato modelli virtuali delle loro auto nel gioco Game for Peace.
A testimonianza di quanto sia interessante questo nuovo spazio di business, sono nate anche aziende specializzate nella realizzazione di capi di “digital couture”. La più nota è l’olandese The Fabricant che già nel 2019 aveva venduto un abito virtuale iridescente per ben 9.500 dollari. Oggi collabora con marchi come Adidas, Puma, Tommy Hilfiger ed ha lanciato un marketplace per prodotti digitali in versione NFT.
L’altra azienda che ha fatto parlare di sé per le sue creazioni digitali è RTFKT (si legge artifact). Partita con la realizzazione e la vendita di sneaker tridimensionali, da indossare anche in realtà aumentata, alla fine del 2021 è stata acquisita da Nike. Chiaro segno che il Direct to Avatar non è un vicolo cieco, ma una strada promettente che incrocia il retail tradizionale per potenziarlo.
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